Patrimonio: il nostro, di tutti
La questione del patrimonio emerge a Roma in modo paradossale. Roma è la città con la più alta concentrazione di beni archeologici, storici, architettonici e archivistici al mondo, e tra i meglio conservati al mondo, spesso ancora integrati nella vita della città. Tutto questo è ben riconoscibile nei palazzi, nelle chiese, nel sistema viario e nei tessuti edilizi della città, ed è strettamente interconnesso, nel bene e nel male, alla vita quotidiana. Il paradosso emerge tra l’estremo rigore delle istanze della tutela, e la tendenza, altrettanto estrema ma di segno opposto, a disfarsi dei beni delegandone la gestione o perfino trasferendone la proprietà al privato (giustificata dalla mancanza di risorse e dall’incapacità o impossibilità di gestione da parte del pubblico) – invece di apprezzarne la ricchezza e viverla, il patrimonio è trattato come attrazione per i turisti o come fosse un fardello.
Di certo, per i cittadini romani e i loro rappresentanti politici, il patrimonio che abbiamo ereditato da secoli e millenni è una responsabilità enorme. Il patrimonio deve essere obiettivo primario di investimento pubblico e collettivo (non necessariamente solo di risorse economiche), per cui devono essere ideate e rese possibili anche forme di gestione diverse del bene collettivo e comune. Il patrimonio chiede ed implica di assumere una prospettiva di lunga durata, di mettere in discussione i modelli di sviluppo dominanti, fa capire l’insostenibilità dell’economia della rendita -che pure si basa sull’esistenza di un patrimonio-, e implica una ‘nuova imprenditorialità’ guidata dal principio dell’interesse pubblico, del benessere collettivo, della necessità di ricominciare ad immaginare e progettare il futuro attraverso la riscoperta continua del passato come solo modo per dare senso -e poter agire- al presente.
Il dossier è parte di un lavoro collettivo dal titolo Manifesto per Roma, che viene interamente pubblicato in questo sito, nella sezione Proposte. Hanno contribuito: Nicola Brucoli; Jolanda Bufalini; Federica Fava; Andrea Fulgenzi; Marina Montacutelli; Barbara Pizzo (coordinatrice)
Introduzione
In un’accezione ampia, il patrimonio romano testimonia ed esprime una realtà urbana complessa, esito di una stratificazione ininterrotta di quasi tre millenni di storia, durante la quale i beni sono stati progettati, costruiti, usati, modificati, a volte abbandonati, spoliati, e poi di nuovo riusati e reintegrati nella vita della città. Tutto questo è ben riconoscibile negli assemblaggi di palazzi, chiese, sistema viario e tessuti edilizi, tuttora strettamente interconnessi, nel bene e nel male, alla vita quotidiana. Questo non riguarda solo il centro storico, ma la città tutta, cresciuta progressivamente ed inesorabilmente erodendo il territorio dell’antico Suburbio e dell’Agro Romano, in cui si trova una percentuale importante del patrimonio archeologico della città e molti siti di notevole interesse storico-archeologico, prevalentemente lungo le vie consolari e anche nei loro tratti più esterni .
Per definizione, il patrimonio (culturale) è politico, in quanto implica scegliere tra alternative, che ci sono sempre, rispetto a cosa-come conservare e progettare l’esistente. La concezione patrimoniale sottesa alla sua interpretazione e gli approcci operativi che ne derivano, sono un banco di prova decisivo per le politiche cittadine, perché le scelte che si prendono possono essere irreversibili, e sempre dicono del sistema valoriale che le ha prodotte. La capacità di immaginare e sperimentare relazioni vive e vivificanti tra patrimonio costruito e popolazioni, agenti primari del cambiamento, è oggi al centro del dibattito nazionale e internazionale, sottolineando la crescente importanza di aspetti intangibili, di valori di appartenenza e di corresponsabilità. In questa prospettiva, se all’interno di una visione di lunga durata e quindi in un progetto di città, il patrimonio e la sua gestione possono significare opportunità di lavoro e formazione, cultura diffusa e specializzazione, inclusione sociale e costruzione di reti di relazione a varie scale, cura e presidio territoriale, costruzione di comunità.
Del patrimonio quindi è necessario interrogare le modalità di gestione insieme alle forme di proprietà, come pure i cambiamenti d’uso, in relazione alle scelte che riguardano più ampiamente i contesti e gli ambienti. Si vogliono così mettere in discussione i modelli di sviluppo dominanti, indifferenti ai vari e sempre più frequenti segnali di crisi, pervicacemente aggrappati all’idea di una crescita continua in cui ‘chi si ferma è perduto’, in cui il patrimonio è risorsa a cui attingere, oppure è un fardello di cui è meglio disfarsi, e non ricchezza da tramandare, progetto collettivo di lunga durata da coltivare e arricchire.
In questo dossier, denunciamo quindi l’insostenibilità dell’economia della rendita – che a sua volta si fonda sull’esistenza di un patrimonio dal quale catturare valore — delle tante forme di rendita di Roma, inclusa quella che spiega il basso investimento sul patrimonio, forti di una ‘supremazia’ (Roma resta comunque la città più visitata d’Italia e tra le prime più visitate al mondo ) che abbiamo solo ereditato.
L’intenzione, al contrario, è quella di proporre una relazione diversa tra patrimonio e città, non predatoria, non estrattivista, ma basata sulla cura e sulla corresponsabilità, su una ‘nuova imprenditorialità’ guidata da un principio di interesse pubblico e collettivo che si ri-significa nel suo concretizzarsi. Da qui muove il bisogno di ricominciare ad immaginare e progettare il futuro attraverso la riscoperta continua del passato come solo modo per dare senso – e poter agire – al presente. In altre parole, a fronte di una tendenza sempre più volta alla sola valorizzazione economica, che ha portato a scelte i cui effetti e rischi concreti sono stati messi in luce anche dalla pandemia, è necessario ripensare radicalmente il significato e il ruolo del patrimonio nella vita della città.
Una nota per la lettura
Prima di entrare nel merito delle questioni, è necessario specificare che per l’articolazione di questo dossier ci siamo basati su una definizione ampia di patrimonio, che attraversa e anche supera la materialità dei manufatti a cui è ancorato, sebbene sia ad essa inscindibilmente legato. Abbiamo in parte sottinteso il legame tra patrimonio e valore e, rispetto a quest’ultimo termine, ci siamo concentrati su quello che abbiamo definito valore relazionale dei beni patrimoniali – intendendo le relazioni co-generative con il territorio e le popolazioni –, dalle implicazioni culturali e spaziali, senza sottostimare o prescindere dal loro valore economico. Consapevoli dell’impossibilità di proporre soluzioni pronte per l’uso, nel testo che segue attraversiamo perciò una molteplicità di patrimoni: pubblico, privato, residenziale, naturale, culturale o semplicemente costruito. L’osservazione critica che accompagna il ragionamento si sostanzia di evidenze e attitudini rilevate nella Roma di oggi. Ogni passaggio rappresenta quindi l’occasione per proporre una interpretazione di patrimonio come bene comune, ‘bene relazionale’, dinamico, incrementale e intergenerazionale per eccellenza. L’idea è che sia nell’accogliere e osservare la complessità di questo “mondo di patrimoni”, nelle sue contraddizioni e potenzialità, che si possano trovare traiettorie altrettanto complesse di azione, capaci di sostenere il cambiamento dei territori attraverso soluzioni più eque e sostenibili.
1. Patrimoni: una questione di relatività
Le concezioni di patrimonio nel tempo si sono quindi progressivamente spostate dalla forma dell’elenco di beni, alla considerazione del bene nel suo contesto spaziale e nelle sue relazioni territoriali, a meta-definizioni centrate sulle ragioni dell’attribuzione di valore e sui soggetti che tale valore attribuiscono. In sostanza, si è passati dagli oggetti ai soggetti, passando attraverso i territori.
In questa prospettiva, il fine ultimo della conservazione e valorizzazione del patrimonio è di mantenere e dare nuova forma ai valori che la società attribuisce al patrimonio e riconosce in esso. Questa visione assume che il significato del patrimonio e i metodi e le politiche per valorizzarlo siano profondamente influenzati dai cambiamenti del contesto socio-economico e culturale in cui esso si trova. Il ‘contesto’ include i valori che le persone riconoscono nel patrimonio, l’uso che ne fanno, così come le funzioni che esso svolge per la società. Se da un lato questo significa che, per gli abitanti che vi si riconoscono socialmente e storicamente, graffiti sul muro di un complesso residenziale popolare possono avere non meno valore di un monumento dell’antichità, dall’altro ciò ha evidenti implicazioni relative a quale società viene rappresentata, a chi riesce ad avere voce, a chi rimane escluso in questo processo di attribuzione di valore che è anche un processo di riconoscimento. Quello che vogliamo sottolineare, in altri termini, è che il valore del patrimonio è dipendente anche dai valori – e cioè dai principi, dalle priorità e anche dal sistema di convenienze ¬ definiti da chi detiene il potere (non solo verticalmente, ma anche orizzontalmente – ad esempio tra gruppi diversi all’interno di un certo spazio urbano, come un quartiere – si pensi alla negazione del valore delle testimonianze urbane delle comunità di colore come patrimonio culturale, di cui dà conto Dolores Hayden , che si può estendere alle varie minoranze), e dalle condizioni del contesto stesso, dalla ricchezza e varietà del patrimonio e dalla propensione e capacità di riconoscerla, conservarla e anche incrementarla.
L’esigenza di una definizione assoluta del valore di un bene, che sembra contraddire l’importanza del riconoscimento relativo del suo significato, può derivare dal tentativo di impedire l’arbitrio dei poteri di volta in volta dominanti, e il rischio di perdere beni irriproducibili (il Pantheon, il Colosseo), per i quali si impone necessariamente l’obiettivo della conservazione come non-sottrazione alla fruizione del bene per le generazioni future.
Inoltre, il valore ‘relativo’ del patrimonio non è relativo solo ad un gruppo sociale, ma anche al patrimonio complessivo di un certo contesto geografico, e questo ragionamento va declinato a varie scale. Ragionando su Roma alla scala urbana, questo non implica che il patrimonio non monumentale sia da sottovalutare data l’eccezionale ricchezza di quello monumentale; come del resto non va sottovalutata l’importanza del riconoscimento dei cittadini nel patrimonio storico e architettonico cittadino , affinché questo non sia percepito come alieno (e quindi alienabile), o addirittura come ‘ostile’.
Ad esempio, il patrimonio archeologico, assolutamente unico al mondo e che si estende anche alle aree più periferiche, è lì tanto più importante in quanto offre potenzialmente qualità al tessuto abitativo ed è lì infatti che, non casualmente, sempre più spesso si formano associazioni e comitati di cittadini per la tutela delle testimonianze storiche, e verso le quali si manifesta –ad esempio – un interesse crescente delle Accademie straniere a Roma, che vi trovano motivo di studio e di ricerca. E questo nonostante il fatto che in molte realizzazioni recenti non si è saputo integrare l’archeologia negli interventi di trasformazione urbana, per cui la presenza dei resti è percepita come ‘estranea’ e, in alcuni casi, ‘ostacolo’ nella vita quotidiana di chi vive nell’area (un caso emblematico è il Piano di Zona di Tor Vergata, modificato dopo il rinvenimento del tracciato romano, con esiti alquanto controversi).
2. Eternità diffusa, patrimonio che pesa
Si pensi anche alle tante torri tardo-antiche e medioevali di presidio della vastissima campagna romana che sono diventate i nuclei originari di insediamenti rurali o semi-rurali e di borgate – ora quasi invisibili perché inglobate nelle sconfinate urbanizzazioni e conosciute ormai forse più dalla toponomastica; oppure, similmente, ai diversi forti – come il Prenestino, il Trionfale, il Forte Antenne – alcuni dei quali noti perché occupati e trasformati in centri sociali, essenziali luoghi di incontro e di sperimentazione di forme di auto-organizzazione, di servizi per il tempo libero, la formazione, l’integrazione sociale in diverse parti di Roma; oppure anche alle tenute, con casali e altre strutture di rilevante significato storico – anche strettamente connesse alla struttura idro-morfologica della città, a cominciare dai suoi corsi d’acqua principali, il Tevere e l’Aniene – con la storia di opere idrologiche – ponti, muraglioni, lungo-fiume – che, insieme a quella dei loro usi, è inestricabile da quella del territorio urbano.
La campagna romana nel suo insieme , celebrata fin dal XVIII e XIX secolo dai viaggiatori che arrivavano a Roma come tappa del Grand Tour, è quindi parte imprescindibile del patrimonio. Anzi, era proprio la separazione tra città e campagna, ancora esistente e ben riconoscibile fino a 20-30 anni fa, l’eredità principale dell’Agro dei latifondi: segno e testimonianza della storia economica e sociale della capitale, insieme al sistema di orti e vigneti che, potremmo dire, assicurava un’autosufficienza alimentare ante-litteram, progressivamente eroso dalle lottizzazioni fuori e dentro i piani regolatori dall’Unità d’Italia in poi – le stesse che hanno cancellato molte delle più belle ville storiche, a cominciare dalla meravigliosa Villa Ludovisi .
Tutto questo rende evidente che parlare di patrimonio implica considerare la città e la sua storia, nel loro complesso e nella complessità delle relazioni materiali e immateriali: non si tratta solo del bene nella sua consistenza fisica, e neppure solo del bene nel suo contesto, ma della storia d’uso e del significato di cui quello stesso bene si fa segno e memoria – una storia che da un lato non vorremmo si interrompesse e che, al contrario, vogliamo resti viva e vitale; dall’altro, che vorremmo recuperare, ove necessario e possibile, anche decisamente invertendone la traiettoria.
È un intero sistema di decisioni, a diverse scale, che può determinare la vita o la morte dei beni singoli e del patrimonio, e che pertanto deve essere complessivamente riconsiderato. Al contrario, il patrimonio viene parcellizzato e separato, sottratto nei fatti proprio a quel processo di stratificazione che potrebbe conservarlo vitale, diventando spesso o attrazione per turisti, o fardello, quando invece l’unicità di Roma è proprio in quel tessuto che tiene insieme l’antico con l’eredità dei papi e il moderno ¬ ma ciò è troppo raramente e poco effettivamente riconosciuto, apprezzato e vissuto come peculiare, irriproducibile ricchezza.
Un noto blogger, Svevo Moltrasio, riassume tutto questo in uno dei suoi video, una visita immaginaria in tempo di pandemia, basata sul ricordo della città ‘là fuori’:
“Qui da noi i tempi e le epoche si mescolano e restano ben visibili per cui ci si può imbattere nel Teatro di Marcello ed ammirare le arcate originali del I secolo a.C. che si fondono in una struttura medioevale e sfociano in un palazzo rinascimentale, perché a Roma come in nessun’altra parte del mondo ogni epoca umana è ancora viva e vissuta, unendo in un immaginario filo infinito tutti coloro i quali hanno messo piede in questa città, eppure (altra fesseria della società d’oggi) a noi romani viene spesso rinfacciato di non aver niente a che fare con coloro i quali hanno fatto la storia di questa città, di non avere nessun merito se siamo nati da queste parti, quando invece più che per qualsiasi altro cittadino di qualsiasi altra città, se questa, unica al mondo, sopravvissuta ai sacchi e alle bombe, conserva ancora intatta tutta questa storia è proprio per merito di chi ci vive e nel suo piccolo – anche minuscolo – contributo ha permesso che ogni mattone resistesse nei secoli”.
Allo stesso tempo, le Mura Aureliane si sgretolano nell’inconsapevolezza generale; i Fori dopo venti anni di scavi sono un cratere incomprensibile; gli archivi giacciono in capannoni industriali a Casal Bruciato e a Pomezia; la Biblioteca Nazionale non è degna di una capitale; l’Appia antica è sotto attacco dell’abusivismo e non è adeguatamente protetta dal Ministero…
Di certo, per i cittadini romani e i loro rappresentanti politici, il patrimonio che abbiamo ereditato è una responsabilità enorme, ed effettivamente è percepito talvolta unicamente come un peso . Ciò può far pensare alla parabola dei talenti, per cui chi ha ricevuto di più ha più responsabilità di usare bene ciò che ha ricevuto: deve usarlo bene, non lo può ‘semplicemente’ seppellire sottoterra per evitare rischi (Mt 25,14-30). Una responsabilità che vale non solo per il presente, guardando alla qualità del nostro vivere, ma anche rispetto al potenziale ruolo che il patrimonio può assumere nella vita e nell’economia della città futura.
La domanda che ci vogliamo porre è quindi questa: Cosa ci verrà riconosciuto negli anni futuri, guardando indietro al tempo che stiamo vivendo? Quale è e quale vogliamo che sia il nostro contributo, che permette a tale incredibile ma concreto e reale patrimonio di durare ancora e insieme di arricchirsi, proseguendo quella stratificazione iniziata nel I secolo a.C.? Quale eredità trasmetteremo, e quali sono i valori che emergono dalle scelte che caratterizzano questo tempo?
3. Patrimoni contesi: tra scelta politica e inerzia
Un esempio: nel 2015 l’edificio dell’Archivio centrale dello Stato all’Eur (dove era stato trasferito nel 1960 dalla sede di S. Ivo alla Sapienza), è stato venduto all’Inail per permettere a Eur Spa (90% del capitale MEF, 10% Roma Capitale) di rientrare di una parte del debito contratto per la costruzione della Nuvola di Fuksas. Quasi contemporaneamente fu presa la decisione di chiudere la sede del Museo di Arte Orientale di via Merulana e di trasferire le opere che vi erano conservate negli edifici dell’Archivio di Stato per i quali si paga l’affitto all’Inail. Considerando la pratica tanto aberrante quanto ormai consueta di considerare i beni che costituiscono il patrimonio storico-artistico e culturale come ‘voci di bilancio’, si direbbe che queste operazioni non rispondano neppure alla logica del ‘massimo e migliore utilizzo’, ma somiglino più banalmente a delle ‘partite di giro’ tra i bilanci di diversi enti pubblici, la cui razionalità difficilmente può essere apprezzata, o anche semplicemente compresa, dalla cittadinanza (ed è da chiedersi se lo sia dai promotori), e che risulta spesso totalmente indifferente al vero valore patrimoniale, che è quello storico-sociale.
Negli elenchi dei beni non ‘produttivi’, o con costi di gestione considerati non sostenibili, o non più strumentali alle funzioni degli enti pubblici che li possedevano, quindi passibili di dismissione, sono entrati beni che hanno avuto un grande significato nella storia della città come il museo geologico creato da Quintino Sella o il museo dell’Arte orientale di via Merulana, entrambi oggi diventati fantasmi.
Ognuna di queste situazioni, siano esse il risultato di scelte – o di non-scelte –, segnala certamente l’esistenza di visioni contrastanti: ma i conflitti che ne derivano raramente portano a confronti fertili, alla ricerca di nuove soluzioni. Più spesso i beni restano come ‘in sospeso’, una condizione particolarmente difficile da capire e ancora più da condividere.
Se non per alcune improvvise accelerazioni in cui emergono decisioni che sembrano altrettanto improvvise, la maggior parte di questi processi e di queste dinamiche sono avvenuti e avvengono in una sorta di spazio-tempo quasi sospeso, che si percepisce come quasi infinitamente dilatato, quello dove le politiche orientate al laissez-faire si incontrano (più o meno volutamente e consapevolmente) con una forma ulteriore di inerzia, che è sia quella di una amministrazione non sempre pronta e ricettiva ai problemi e alle istanze cittadine, sia quella di una cittadinanza che (forse) non crede neppure più alla possibilità di intervenire, al senso di un impegno individuale e collettivo per un bene più grande.
In particolare, osservando e ricostruendo le scelte relative al patrimonio culturale delle amministrazioni degli ultimi anni, è forse il patrimonio della Roma moderna (dal XVIII-XIX sec.) e quello della Capitale dell’Italia unita che hanno sofferto più di altri di tale dilapidazione. Colpisce profondamente il fatto che di recente, nell’imminenza dei 150 anni della Capitale, sia stata presa la decisione di chiudere l’Istituto del Risorgimento al Vittoriano. Il gomitolo di filo tagliente che stringe insieme questi fatti, ai quali si aggiungono la già ricordata vicenda del Museo geologico e la condizione pietosa in cui versano i locali di via Galla Placidia – i capannoni industriali sopra ricordati in cui ha sede l’archivio dello Stato relativo all’età contemporanea, che contiene e rappresenta la storia viva personale, lavorativa, familiare, della popolazione di Roma – testimonia una perdita di senso della storia unitaria di Roma capitale d’Italia, della storia della città più in generale, di cosa sia stata, sia, e possa essere Roma, al di la delle retoriche auto-celebrative.
Le vicende sopra brevemente ricordate sono anche e forse prima di tutto indicative di una crisi della funzione di Capitale, un ruolo che sembra essersi esaurito ‘in sé’, ma che può e deve essere ripensato in modo che Roma diventi “capitale per sé” .
Guardando all’oggi, abbandono, dismissioni, cartolarizzazioni, privatizzazioni, incuria, chiusure, progetti e realizzazioni mai portate a termine sembrano dominare la scena, contribuendo a diffondere una nuova estetica della decadenza .
Ci sono edifici meravigliosi che restano vuoti, o per i quali sembra si faccia fatica ad individuare un possibile uso, e funzioni importanti, tra cui scuole, biblioteche, e presidi sanitari essenziali come i consultori, che non trovano dimora: uno sguardo attento non farebbe fatica a formare coppie virtuose.
Nel sollecitare la necessità di restituire spazi alla città e in particolare alle giovani generazioni, un recente video prodotto dal collettivo romano Scomodo passa in rassegna una serie di ‘monumenti’ da tempo sotto l’attenzione dell’opinione pubblica: l’auditorium Albergotti, i Mercati Generali, lo stadio Flaminio – solo per citare alcuni luoghi ‘abbandonati’ – ormai luoghi simbolo della mancanza di una visione di futuro.
Basti pensare all’Ospedale Forlanini, tornato al centro dell’attenzione pubblica in tempo di pandemia essendo nato come ospedale specializzato per le malattie respiratorie, che poteva essere quindi potenzialmente il posto perfetto per organizzare un centro Covid, e resta invece, dopo quasi cinque anni dalla sua chiusura, inutilizzato e conteso. O al Planetario, la cui vicenda è ancora senza soluzione dopo anni di controversie: rappresentando invece un’occasione di formazione apprezzata a tutte le età, e anche una fonte non irrilevante di ricavi (i lavori di ristrutturazione, che si è deciso di non sostenere, potevano essere coperti dagli incassi di biglietteria). Per non dire del già menzionato Museo di Arte Orientale in Via Merulana.
La sede storica del Museo dell’Arte Orientale a Palazzo Brancaccio si trova nel quartiere Esquilino che, pur trovandosi nella città storica, alle spalle della stazione Termini, era storicamente e in molte sue parti degradato. È stato il primo ad essere popolato da diverse comunità immigrate, poi è divenuto meta di circoli artistici e intellettuali. Oggi combina un mix in cui convivono i ceti popolari di vecchio insediamento, i migranti, persone legate a professioni artistiche e culturali. Valorizzare, ampliare, far dialogare il museo in quel luogo con il quartiere circostante e la città tutta sarebbe una operazione importante sia per il dialogo con il territorio e le culture che ospita, sia per rilanciare la vocazione di Roma come capitale del Mediterraneo. Operazioni analoghe sono state fatte in altre capitali europee con successo, si pensi all’Institute du monde arabe a Parigi o anche, sempre a Parigi, al museo Guimet, che tante similitudini ha con il nostro Museo dell’Arte Orientale.
Per fare operazioni del genere, però, è necessario superare l’asfittica visione del nostro patrimonio museale come di una Disneyland dell’antichità, finalizzata alla biglietteria turistica, per rilanciarne invece il potenziale di conoscenza e dialogo fra culture.
Tra i molti e vari casi, quello dell’ospedale San Giacomo ci sembra meritare qualcosa in più di un accenno. Da un lato, per il momento particolare in cui questo lavoro si colloca, un tempo di emergenza sanitaria e di pandemia, che ci interroga sulle scelte di riorganizzazione del sistema salute della città e della regione; dall’altro perché è capace di mostrare l’intreccio tra diversi aspetti, livelli e significati del patrimonio, che vogliamo portare al centro dell’attenzione proprio nelle loro relazioni.
L’ospedale San Giacomo, nel cuore del centro storico di Roma (via di Ripetta), è stato chiuso nel 2008, dopo quasi 700 anni dalla sua fondazione, con un blitz in piena estate. Secondo la regione Lazio, il numero esiguo di ricoverati rendeva infatti ingiustificato il mantenimento in funzione del complesso, che aveva ridotto il numero delle degenze proprio perché aveva attuato con successo protocolli finalizzati alla riduzione della spesa: elaborando una metodologia che consentiva ai parenti di assistere a casa i congiunti malati, organizzando più day hospital, training per familiari e pazienti su come somministrare le cure e utilizzare i macchinari a domicilio, e garantendo assistenza per le emergenze h24. Tali nuovi protocolli e le scelte che li avevano accompagnati erano però anche capaci di dimostrare che un modello diverso di presidio della salute sul territorio, più vicino e integrato nel locale, poteva essere sostenibile. Indifferente a tutto questo, il progetto delle autorità politiche era vendere l’edificio rinascimentale-barocco del San Giacomo per ridurre il debito della sanità regionale, trasformandone la destinazione d’uso in turistico-ricettiva. Nonostante l’avvenuta chiusura, la trasformazione dell’ospedale in hotel di lusso è stata impedita da cittadini e pazienti, che ne hanno bloccato la vendita grazie all’esistenza di un vincolo d’uso sanitario stabilito nell’atto di donazione del bene: il documento originale venne rinvenuto nell’Archivio di Stato di Roma, a Sant’Ivo alla Sapienza: a ulteriore conferma, se mai ce ne fosse bisogno, dell’importanza centrale e del ruolo irrinunciabile degli archivi storici, memoria ancora viva della città, utili non solo per gli storici e gli studiosi, ma per la città e i suoi abitanti, anche nelle loro vicende ‘quotidiane’.
Quella dell’ospedale San Giacomo è vicenda particolarmente illuminante perché esemplificativa del potenziale regressivo di logiche di gestione del patrimonio incentrate su principi di massimizzazione economica degli asset pubblici. Ma dimostra anche la connessione inscindibile tra beni patrimoniali materiali, patrimoni di conoscenze e competenze e contesto locale, sia spaziale che sociale: rende quindi abbastanza chiaro l’intreccio tra ‘tipi’ e anche ‘interpretazioni’ di patrimonio che vogliamo evidenziare proprio nella loro dimensione relazionale.
Inoltre, dopo la pandemia Covid-19, che ha reso evidente la necessità di ripensare un’organizzazione sanitaria troppo incentrata su grandi poli e troppo lontana dal locale, la realtà imprevista della crisi del turismo e l’evidenza dell’insostenibilità di una ‘monocoltura turistica’ rimettono in discussione anche concezioni di patrimonio e interpretazioni delle sue forme e modalità d’uso che sembravano (quasi) incontrastate.
In quale altra città del mondo troviamo un ospedale ancora ben funzionante in un edificio del XVII secolo?
Capita di sorridere osservando l’orgoglio che in altre città e in altri paesi si dimostra per il fatto di avere una funzione pubblica o collettiva importante in un edificio di valore storico: la permanenza non è messa in discussione perché è segno e simbolo della continuità e dell’autorevolezza dell’istituzione.
Quello che si fa e si potrebbe fare è puntare sulle migliori dotazioni tecnologiche per ridurre il gap funzionale rispetto ad un nuovo edificio, mantenere comunque la funzione nell’edificio originale e, se necessario, accostargliene un altro, nelle vicinanze più o meno immediate, capace di rispondere alle più moderne esigenze. Perché a Roma soluzioni simili sembrano impossibili?
Purtroppo, si fa fatica a capire se, come e quanto, la ‘crisi’ di strutture come il S. Giacomo, il Museo d’arte Orientale o il Museo Geologico fossero evitabili o risolvibili con soluzioni capaci di garantire la continuità della funzione che ospitavano e svolgevano, e a restare pubbliche, quando intervengono interessi ‘altri’ che rendono la valutazione quantomeno contesa. Non è difficile credere che la trasformazione del S. Giacomo in hotel di lusso sia più redditizia: ma per chi? E a spese di chi? La domanda fondamentale che aiuta a sciogliere ogni controversia è sempre la stessa: chi guadagna, e chi perde?
Nel caso in cui forme varie di privatizzazione dello spazio urbano sembrano l’unica soluzione possibile, è più che lecito chiedersi quanto questa declinazione del ben noto TINA ‘There Is No Alternative’ – che comunque dipende da uno squilibrio di potere –, sia riconducibile all’effettiva superiore forza degli attori economici e/o dalla debole capacità (o non volontà) di negoziare del soggetto pubblico, e/o dalla sua limitata capacità propositiva – cioè di pensare alternative da contrapporre alle soluzioni ‘dominanti’.
Nel misurare l’effettiva distanza tra queste realtà e il funzionamento di una capitale internazionale, quale è Roma, si evidenziano mancanza di progettualità, miopia, indebolimento delle strutture pubbliche e del governo pubblico, inclusa la soprintendenza di Roma, che per alcuni decenni è stata invece un referente culturale e politico di primo piano .
4. Essere nel tempo: il patrimonio tra storia e pensiero di futuro
Nel caso di Roma, una parte rilevante del patrimonio cittadino è però anche universale, dell’umanità, per cui c’è una moltiplicazione e anche una sovrapposizione di significati (non solo di livelli di competenza) che non deve essere posta come opposizione, come invece spesso è stato fatto (ad esempio nel costruire il discorso sul rapporto tra sviluppo della rete delle linee metropolitane e patrimonio archeologico e storico-architettonico). Al contrario, è proprio attraverso questo caleidoscopio di significati (storici, documentali, artistici, culturali, sociali, collettivi, ecc.) che si possono generare occasioni per immaginare il futuro della città, prima di tutto cambiando radicalmente il senso del suo essere città Capitale.
Quei ‘visionari’ che in una fertile stagione della storia di Roma hanno tentato di proporre un’idea diversa di città proprio a partire da un modo diverso di interpretare e trattare il suo patrimonio sono stati spesso accusati di opporsi al cambiamento, addirittura di anti-modernità: dopo tanti anni la loro lungimiranza è splendente, e anche la forza di cambiamento implicita nelle loro proposte: a partire da quella per il Parco dell’Appia Antica, integrata con quella di realizzare, in un sistema unitario, il più grande parco archeologico del mondo, e non (solo) per attirare i turisti, ma gli studiosi, gli scolari, i giovani; perché l’archeologia non è qualcosa di altro dalla città, è ‘solo’ la sua componente di più lunga durata, il suo più importante documento storico, le sue speciali fondamenta, che ancora contribuiscono a mantenere viva la cultura della città e dei suoi abitanti, attraverso i millenni.
Il patrimonio è una chiave di lettura del presente, anzi, un modo di essere nel presente, che trova significato solo se riconosce ‘alle spalle’ la stratificazione dei significati e dei valori del passato, e se è capace di immaginare il futuro. Il patrimonio di una città non è l’insieme come sommatoria di valori in un certo contesto geografico-territoriale, ma bene culturale complesso e relazionale. E non è ‘culturale’ solo perché la cultura attuale (una certa cultura in un certo contesto storico-geografico) ne riconosce il valore : questo rischierebbe di contribuire alla ‘individualizzazione’ dei beni, alla loro monumentalizzazione, al loro isolamento dal contesto. Diversamente, il patrimonio è culturale perché i beni, interpretati nelle loro relazioni reciproche e con il territorio, sono prima di tutto documenti storici che permettono di ricostruire (diremo: esegeticamente) il processo storico, sociale e culturale che li ha prodotti.
Il tempo è quindi una dimensione fondamentale: nel tempo i beni possono essere alterati, cambiare funzione, ricomporsi e trovare nuovo significato se restano in una relazione viva e vitale all’interno del contesto che li ha prodotti e che dovrebbe anche continuare a produrne di nuovi: non possono essere ipostatizzati, e neppure trasformati in merci. Il processo di trasformazione in merce del patrimonio è particolarmente controverso: lo stabilire un valore economico in un preciso momento, può essere considerato una forma di ipostatizzazione; nel fissare un prezzo, per quanto si tenti di considerarne ricchezza e complessità, il valore del bene viene comunque ‘ridotto’.
Evitare da un lato la cristallizzazione, dall’altro la mercificazione del patrimonio non significa non scegliere: al contrario. Significa non sottrarre dal contesto, reinterpretare, permetterne la lettura nella storia – che non è (solo) il passato. Ma spesso anche la pratica sociale consapevole di selezione, interpretazione e trasmissione del patrimonio si è segmentata, parcellizzata e talvolta interrotta.
Dobbiamo essere consapevoli del valore sociale, culturale e politico di tale processo di selezione, che funziona solo all’interno di una prospettiva intergenerazionale.
Solo in questo modo, solo se e quando il patrimonio sarà riconosciuto davvero come pubblico, responsabilità condivisa, patrimonio ‘di tutti’ e ‘proprio’ allo stesso tempo, ricchezza da tramandare e di cui essere orgogliosi senza retorica, solo allora potrà aprirsi quel nuovo percorso di transizione e immedesimazione che si ha quando il contadino lascia ai suoi il campo, o l’albero, o la vigna, sapendo che non sta lasciando in eredità solo il bene, ma la propria storia insieme con il bene e il lavoro che esso comporta, nella piena consapevolezza sua e degli eredi.
4.1 I tempi e le durate del patrimonio – sugli ‘usi temporanei’
Una interpretazione particolare della relazione tra tempo e patrimonio è quella degli usi temporanei, nella loro declinazione di strategia di valorizzazione di beni orientata alla loro trasformazione e, di solito, alla loro vendita. Approccio che emerge spesso in modo stridente con quello patrimonialista, che implica lungimiranza e capacità di cura di lungo periodo.
Tale modalità di ‘valorizzazione’ si basa sull’individuazione di una forma d’uso capace di essere rapidamente riconosciuta da una parte della popolazione (ad esempio, i giovani), non fondata sul valore più generale del bene, che è in fase di negoziazione, né del bene nel suo contesto (architettonico, storico, ambientale/paesaggistico) ma sul più semplice e immediato valore attribuito in base alle potenzialità della forma d’uso temporanea – in genere legata al loisir – e ci si aspetta che il bene sia riconosciuto come tale per mezzo di quello specifico uso. In sostanza, quindi, consapevolmente si sposta l’attenzione e si punta sul valore d’uso per poi trasformarlo in valore di scambio . Questo processo è interessante perché dimostra la prassi sempre più utilizzata di ‘mettere in valore’ le forme d’uso collettivamente prodotte (anche spontanee) per produrre incrementi da catturare, non altrettanto collettivamente.
L’uso temporaneo è spesso definito fuori da una visione sul patrimonio, e indipendentemente dalla destinazione futura del bene e dalla situazione di contesto, e gli enti pubblici sembrano non avere strumenti efficaci per definire e poi vincolare precisamente le destinazioni d’uso temporanee e future (si pensi ad esempio all’Ex-Dogana a S. Lorenzo, in cui gli operatori dell’uso temporaneo volevano non rispettare il contratto e mantenere la destinazione d’uso temporanea nel futuro spazio rigenerato, visto il suo successo). In sintesi, la valorizzazione temporanea tende ad essere solo strumentale alle forme di speculazione, e doppiamente redditizia: un’estrazione di valore immediato, che cresce esponenzialmente perché intanto contribuisce alla produzione o all’incremento di valore a vantaggio della destinazione e gestione futura. Non da ultimo, gli ‘usi temporanei’ sembrano sempre di più appiattirsi, tanto da perdere quasi ogni connotazione di ‘strategia’ – come invece vengono presentati. Al contrario, sembrano diventare un ‘meccanismo’: astratto, replicabile ovunque, autoreferenziale, indifferente alla storia, alla cultura, alle collettività nelle quali si inserisce.
Superate le logiche effimere più recenti, tanto lontane dalla gioiosa e lungimirante stagione nicoliniana in cui gli spazi della città, e la città tutta, erano implicati in un processo di ri-appropriazione e di ri-significazione da parte dei suoi abitanti, attraverso il gioco e la festa come atti che sfuggono alla mercificazione , è proprio questo processo di ri-appropriazione e di ri-significazione che si dovrebbe promuovere, facendo però in modo che il valore prodotto collettivamente sia e resti collettivamente disponibile, distribuito e condiviso.
L’uso temporaneo può essere una potenzialità se costruito su una visione a lungo termine e su un’idea di valorizzazione (ad esempio, degli immobili dismessi) orientata alla conservazione e alla tutela, al buon uso, all’incremento del patrimonio stesso: con un’enfasi sul mantenere e curare, piuttosto che sul ‘catturare’ valore.
Gli usi temporanei dovrebbero essere inclusivi e non esclusivi, aperti e capaci di attrarre un pubblico variegato (e non essere definiti rispetto ad un target limitato), banco di prova del processo di costruzione collettiva di valore, generativi di spazi di ‘uso civico’, per i quali si potrebbero lanciare concorsi di idee nei quartieri, nelle scuole, nelle università. Dovrebbero essere progettati intorno a funzioni davvero ‘innovative’, che coinvolgano attori operanti in settori e livelli differenti (dalle Accademie e Università, alle aziende e associazioni grassroot), e ‘generative’, cioè che contribuiscano alla formazione dei visitatori /fruitori degli spazi, all’attivismo e all’impegno civico, a sviluppare nuove competenze o a recuperare quelle scomparse, anche eventualmente negli stessi luoghi in abbandono o dismessi in cui erano nate, per aiutare a riscoprire luoghi con importanti valori socio-culturali che proprio l’uso temporaneo potrebbe far rinascere.
5. Patrimonio pubblico e mercato
A Roma ci sono oltre 700 (722) beni di proprietà pubblica con fini istituzionali inutilizzati – mentre scuole, università, centri di ricerca e una serie di altre attività con un elevato significato simbolico sono in troppi casi ospitate in edifici inadeguati, brutti e maltenuti, quando invece dovrebbero trovarsi negli edifici pubblici più belli e curati, in quanto simboli delle istituzioni della Repubblica e dello Stato, oppure sono da anni in attesa di una nuova sede ancora da costruire. Un’attenzione particolare dovrebbe essere riservata alle scuole, la prima istituzione che i cittadini più giovani incontrano, proprio all’inizio della loro vita pubblica: queste dovrebbero essere degna espressione dell’istituzione che rappresentano, dovrebbero essere gli edifici più belli e più curati, sia all’interno che all’esterno.
Gli interventi di recupero di palazzi ed altri edifici storici, scelta peraltro coerente e ausiliaria rispetto all’opzione del consumo di suolo zero, potrebbero essere indirizzati al loro utilizzo per funzioni ‘ordinarie’ ed essere così riconosciuti come patrimonio pubblico in senso pieno perché utilizzati e aperti al pubblico, mentre invece troppo raramente sfuggono ad una logica di sfruttamento a fini turistici. Due esempi, i progetti recentemente approvati per il rinascimentale palazzo Silvestri Rivaldi di fronte alla Basilica di Massenzio, e quello degli ex magazzini dell’aeronautica Militare, rappresentano bene una certa ambiguità che permane nell’interpretazione del patrimonio. Infatti, si prevede che il primo, palazzo Silvestri Rivaldi, ospiti la scuola di Alta Formazione del MIBACT, il secondo i depositi dell’archivio di Stato, due importanti funzioni pubbliche, ma, nelle parole del Ministro, si coglie quasi la necessità di dare una giustificazione ‘supplementare’ a scelte in qualche modo anomale: “Sono progetti e cantieri diffusi su tutto il territorio nazionale che vanno a migliorare la bellezza delle città italiane e a sostenere lo sviluppo dell’economia e del turismo del nostro Paese. La cultura e il turismo sono un binomio inscindibile”. Se come collettività abbiamo imparato qualche lezione dalla pandemia Covid, una è che questa ‘inscindibilità’ andrebbe forse riconsiderata, anche per (ri)dare valore alle ‘funzioni pubbliche’ in quanto tali. C’è forse, in Italia, un solo caso che supera quello di Roma per gravità e forse irrimediabilità della situazione, ed è quello di Venezia.
Per cui, l’investimento per la ristrutturazione e l’ammodernamento tecnologico degli edifici che ospitano funzioni collettive importanti per la città e rappresentative dello Stato dovrebbe essere considerato investimento produttivo di lungo periodo, non un rosso nel bilancio annuale. Cassa Depositi e Prestiti (CDP) potrebbe finanziare tali operazioni, sostituendo le banche d’investimento che, a differenza di altri paesi, non hanno tradizione in Italia, a patto che non si lasci trascinare essa stessa da logiche di profitto e sfruttamento immediato .
I passaggi di proprietà e/o di gestione tra diversi enti pubblici dovrebbero essere possibili e semplificati, superando, ad esempio, il problema del computo (o dello scomputo) dei beni nei singoli bilanci. Si pone anche il problema del cambio di destinazione d’uso, che richiede una gestione molto attenta a scanso di abusi che ne possono fare lo strumento principe per favorire una dannosissima trasformazione del patrimonio proprio in senso puramente commerciale e a solo beneficio del privato.
5.1 Immobili residenziali e commerciali
A Roma risultano più di 6500 (6.539) immobili residenziali e commerciali inutilizzati , a fronte di una domanda sia abitativa che di spazi per attività produttive e commerciali che non trova risposte adeguate.
Negli ultimi 10 anni abbiamo assistito inerti alla chiusura di molte attività produttive, artigianali e commerciali, a cui ha contribuito in larga misura il costo degli affitti degli immobili, e non solo nel centro cittadino. Abbiamo seguito forse solo con curiosità i casi riportati dai media sui prezzi astronomici degli spazi commerciali nelle parti più ‘pregiate’ del centro storico (Caffè Greco, Burberry), non soffermandoci sul fatto che tali costi, sostenibili solo da grandi gruppi internazionali quando ne intravedono qualche convenienza, o dalla malavita organizzata, influenzano i prezzi di tutte le attività, in ogni parte della città.
In estrema periferia, fuori dal GRA, prima della pandemia e nonostante gli effetti ‘ritardati’ della crisi finanziaria del 2007-2008, una attività commerciale non specializzata di dimensione media, un locale con due vetrine, poteva superare i 4000 euro al mese escluse le spese, un costo simile era sostenuto per un’attività ‘specializzata’ di dimensione piccola (con una sola vetrina) perché localizzata strategicamente rispetto alle infrastrutture viarie principali (GRA); mentre nel centro storico, dove i prezzi hanno raggiunto i 100 €/mq, un negozio medio, con una superficie di circa 200 mq, può anche superare i 20.000 euro di affitto al mese . Le implicazioni, gli impatti, le conseguenze più dirette di tale condizione andrebbero più adeguatamente approfondite (ad es.: quale tipo di attività può sostenere tali costi; quali sono le forme di ‘risparmio’ messe in atto a fronte di tale spesa da parte degli intestatari dell’attività – sui dipendenti, rispetto al fisco, ecc. –, come tali spese impattano sui prezzi dei prodotti, come influenzano l’accessibilità e quindi come/quanto contribuiscono a forme di ‘segregazione’; quali capacità di resistenza hanno/possono avere le attività in caso di stallo, quale è il trend di trasformazione nei vari passaggi successivi alle chiusure e riaperture, ossia come cambia il paesaggio commerciale e terziario nelle varie parti della città, ecc.).
La proprietà delle mura degli spazi commerciali a Roma è stata considerata a lungo una forma sicura di investimento e fonte certa di reddito, e l’estrazione di rendita da parte dei proprietari è stata difesa ben più delle attività che di quegli spazi necessitano, contraddicendo nei fatti le politiche orientate all’occupazione e allo sviluppo. Già dopo l’impatto della crisi finanziaria, sebbene questa abbia colpito Roma in tempi e modi diversi da altre città , si è potuto osservare un incremento progressivo degli spazi commerciali chiusi e la cessazione di molte attività: non è affatto infrequente che i proprietari degli immobili preferiscano tenere vuoti i locali piuttosto che rinegoziare il prezzo dell’affitto, o i tempi dei pagamenti. Una situazione simile, ma ancora più diffusa e grave per la città si sta verificando in seguito alla pandemia. Quello che sembra non essere tenuto in adeguata considerazione dalla amministrazione è il ruolo delle attività artigianali, produttive, commerciali, non solo per l’economia della città, per la perdita di posti di lavoro e dell’indotto che generano, ma anche per la sua tenuta complessiva come luogo di relazione, per la qualità della vita e il benessere degli abitanti: si pensi, ad esempio, all’effetto deprimente e depressivo delle vetrine chiuse e del senso di crescente, progressiva dismissione.
La politica di sostegno dei negozi storici deve essere senz’altro ripresa, ma non basta: per essere davvero efficace, e perché gli effetti positivi siano a lungo termine, è necessario che il mercato degli affitti sia regolato più efficacemente, a seconda dei casi stabilendo tetti e soglie, oppure con la fiscalità, attraverso incentivi e sgravi, e con disincentivi importanti a tenere vuoti gli immobili; ma anche attraverso la competizione prodotta dall’immissione nel mercato stesso dei beni immobiliari pubblici. C’è un esempio principe in Europa, ed è quello di Berlino; e c’è un modello negativo da evitare, ed è quello di Venezia.
I locali commerciali di proprietà pubblica dovrebbero essere immessi sul mercato per favorire la ripresa delle attività: si dovrebbero ipotizzare forme di contratto d’affitto a progressione incrementale per le attività di giovani, orientate al sociale, all’integrazione socio-culturale, innovative. Tali attività dovrebbero essere sostenute e stimolate, attraverso la disponibilità dei locali e forme agili dei contratti d’affitto, nei quartieri con i più elevati livelli di disagio sociale e abitativo, e si dovrebbero sostenere in particolare le attività che prevedono formazione, praticantato, anche in collaborazione con le scuole e le associazioni di quartiere.
A questo proposito, si sta facendo strada una proposta di legge che chiede la possibilità di utilizzo gratuito del patrimonio pubblico per usi sociali. Tale proposta nasce con una duplice finalità: per consentire di reimmettere in uso parte del patrimonio pubblico, oggi in disuso, in contesti socio-economici critici , e per favorire l’attività di volontariato del mondo dell’associazionismo e del terzo settore particolarmente attento e attivo in quegli stessi quartieri, capace di dare risposte puntuali ai bisogni della popolazione. L’utilizzo degli spazi commerciali e artigianali di proprietà pubblica permetterebbe di ‘l’accendere delle luci’ nelle zone in cui sono evidenti i segni della marginalizzazione, e di incidere su dinamiche locali di coesione, socialità e comunità, e quindi sulla ‘sicurezza’ in senso esteso e sulla qualità dei luoghi. Attraverso il riconoscimento della funzione sociale esercitata da Terzo settore e associazionismo, è possibile superare l’attuale normativa sulle locazioni degli immobili pubblici, vincolata alla mera redditività. Considerando che il patrimonio pubblico è distribuito in gran parte della città, la proposta prevede di selezionare le aree di sperimentazione di questa forma di affidamento sulla base dell’Indice di Disagio Sociale, elaborato dall’Ufficio Statistica di Roma Capitale .
La subordinazione del valore economico del bene alla funzione sociale e ai benefici per la collettività non dovrebbe però essere limitata alle sole aree con i più elevati livelli di disagio, ma dovrebbe costituire un principio basilare per la gestione del patrimonio pubblico.
In generale, il (patrimonio) pubblico non dovrebbe ‘adattarsi’ al mercato, ma – al contrario – potrebbe e dovrebbe guidarlo e indirizzarlo. L’idea dell’azione di calmieramento potrebbe risultare riduttiva, ma in alcuni casi può essere utile ed efficace.
Una simile politica potrebbe essere concordata anche con le gilde e le confraternite (come ad es. la Confraternita della Quercia o dei Macellai, che già agisce in qualche modo in una direzione simile), e potrebbe essere condivisa con gli ordini religiosi, essendo, entrambi i soggetti, proprietari di un rilevante patrimonio immobiliare commerciale, anche nel centro storico.
5.2 Edilizia residenziale
Il tema dell’edilizia residenziale e delle politiche per la casa è un punto nevralgico della città: la sua intera storia può essere raccontata attraverso la storia della casa, e il modo in cui questa viene ricostruita dice molto delle ideologie, dei principi e dei valori, ma anche dei protagonisti individuali e collettivi che le hanno dato forma .
A Roma ci sono stati diversi programmi importanti di edilizia pubblica, e una serie di iniziative edilizie da parte di enti – il caso più noto è quello dell’INA – che complessivamente, fino ai primi anni ’80, hanno permesso ad una percentuale non irrilevante della popolazione di accedere ad un alloggio ‘fuori’ dal mercato – a Roma caratterizzato da una condizione quasi-monopolistica, con i prezzi più alti dell’intero paese (superati in alcuni periodi solo da Milano). Si era potuto costruire un patrimonio di edilizia residenziale tra i più importanti d’Italia.
Nel recente passato questo patrimonio è stato oggetto di cartolarizzazioni e quindi a privatizzazione, seguendo obiettivi diversi da quello, essenziale, di risolvere il problema della casa, che è ancora il problema fondamentale e irrisolto per un numero crescente di famiglie. Pur tenendo conto delle difficoltà di quantificare esattamente il numero degli alloggi pubblici dovute a vari fattori, per primo la gestione disgiunta dei due diversi enti proprietari (il Comune e l’Ater), sono circa 170.000 le persone che risultano abitare in alloggi pubblici, e circa 77.000 le unità abitative utilizzate (circa il 6 % dell’intero stock). Queste, peraltro, non sono tutte di proprietà pubblica poiché comprendono gli alloggi presi in affitto dal pubblico e poi assegnati agli aventi diritto . Per dare una misura di riferimento, diremo che ad esempio a Vienna, una città che contava poco più della metà della popolazione di Roma, al 2018 gli alloggi pubblici risultavano essere 220.000, quasi il doppio (420.000) se si considerano le varie altre forme di edilizia sociale; e che a partire dal 1990, quando gli interventi sociali (pubblici) di nuova costruzione a Roma erano pari a zero, a Vienna raggiungevano l’85% del totale degli interventi di edilizia residenziale, con un investimento annuo di 600 milioni di euro. Inoltre, mentre la qualità edilizia ed architettonica dei progetti pubblici a Vienna è considerata superiore a quella degli interventi privati, e la manutenzione è attenta e costante, le condizioni di tale patrimonio a Roma sono quantomeno problematiche, in alcuni casi evidentemente critiche: si è smesso di investire in edilizia pubblica, sia in termini di nuove costruzioni, che di manutenzione dell’esistente. La ‘crisi abitativa’ è un problema invocato forse più dai costruttori e dagli investitori immobiliari che dagli abitanti, e si tende sempre di più a scambiare un bisogno con la domanda (di mercato), mentre tra le due cose c’è un mondo di differenza .
La casa in proprietà è considerata la scelta preferibile per la maggior parte della popolazione, sebbene i rischi legati all’impossibilità di pagare i mutui non siano inferiori a quelli di non riuscire a pagare l’affitto: l’insicurezza abitativa è uno dei principali motivi di difficoltà e malessere, segno di profonde disuguaglianze e squilibri sociali e territoriali, che il mercato non riesce – in tutta evidenza – a risolvere .
Per cercare di offrire un quadro il più completo possibile, bisogna ricordare che a Roma risultano 15.700 appartamenti affittati ai turisti su airbnb che, oltre agli effetti di incremento dei prezzi, hanno portato allo svuotamento del centro, peraltro già iniziato da molti anni con la progressiva trasformazione di una parte rilevante del patrimonio immobiliare privato in b&b e in seconde case. Non da ultimo bisogna richiamare l’attenzione sulla questione delle case vuote a fronte di un numero crescente di famiglie in lista per l’assegnazione di un alloggio popolare; e tenere presente che la domanda di abitazioni a Roma è da sempre molto più ampia di quella dei residenti, perché i così detti city-users, che vivono parte della settimana a Roma per lavoro o per studio essendo residenti altrove, hanno comunque bisogno di un alloggio: pertanto la domanda di abitazioni non risulta comunque soddisfatta né in termini quantitativi, né qualitativi. In particolare, Roma soffre di una carenza estrema di alloggi per giovani che vorrebbero rendersi indipendenti dalle famiglie d’origine, e per studenti, tra cui moltissimi fuori sede. Tali domande sono state intercettate dal mercato che sta infatti puntando su questi come nuovi target, realizzando interventi come il Camplus, dove la stanza più economica comunque oltre i 1000 euro, e può arrivare ad oltre 1300 euro al mese: non proprio alla portata di tutti.
Invece di contribuire a calmierare il mercato degli alloggi privati per studenti (un posto letto in una stanza condivisa supera spesso i 4-500 € al mese), tali interventi sembrano addirittura legittimare quei prezzi. In particolare dopo gli effetti della pandemia, gli operatori immobiliari sembrano essersi resi conto del rischio di investire in STR (Short Term Rental – affitti brevi), e stanno ri-orientando i loro interventi verso residenze per studenti (e anche residenze protette per anziani): non si tratta, ovviamente, di interventi ‘social-oriented’. Ma, nel vuoto delle politiche pubbliche, è il privato che fa le regole.
Il patrimonio immobiliare pubblico potrebbe essere utilizzato per rispondere a questi bisogni e, attraverso una regolazione efficace e esempi virtuosi da realizzare a breve termine, potrebbe contribuire ad indirizzare e guidare il mercato nel lungo periodo.
Confrontando la realtà romana con quella di molte altre capitali europee rispetto al patrimonio residenziale pubblico e al ruolo del pubblico nel settore residenziale osserviamo alcune sostanziali differenze. La prima riguarda il modo di considerare l’edilizia pubblica. Infatti, in città quali la già citata Vienna, ma anche ad es. Parigi, Madrid, le capitali scandinave, l’edilizia pubblica non è pensata per le fasce di popolazione più deboli e disagiate, ma ‘per tutti’; il pubblico interviene in competizione col privato, e in questo modo stimola il mercato a funzionare meglio, e in modo da rispondere più efficacemente e coerentemente alla domanda di case come ad un basilare e ineludibile bisogno. In queste città è chiaro a tutti (politici, amministratori, imprenditori, cittadini) che è proprio il fatto di possedere un consistente patrimonio di edilizia residenziale pubblica che permette al soggetto pubblico di attuare le proprie politiche. Questa consapevolezza a Roma c’è stata, in un periodo limitato della sua storia, e con qualche esito controverso (in modo più eclatante con il secondo Peep, per alcuni aspetti anche con il primo), ma c’è stata.
È essenziale quindi che la città torni ad intervenire nel settore dell’edilizia residenziale, sia direttamente che indirettamente, dopo aver imparato da alcuni dei più grandi errori degli interventi del passato (a partire dalla segregazione e dalla mancanza di qualità e di servizi), ed anche con modalità di intervento differenziate a seconda degli obiettivi e dei contesti specifici. In ogni caso, preferiamo dire che il pubblico non si deve comportare da attore di mercato, deve comportarsi in modo che gli attori di mercato siano spinti a ‘comportarsi meglio’, e diversamente da come sono abituati a fare. Questo può avvenire, come molti esempi in altre città dimostrano, a partire da un deciso intervento sulla rendita: prima di tutto sulla sua formazione, secondariamente sulla sua estrazione e, da ultimo, sulla sua redistribuzione.
6. Rendita e patrimonio
La crisi economica del 2007-2008, che in Italia ha assunto dei caratteri diversi da quelli di altri paesi in parte proprio per la struttura più statica (che non significa più stabile) del mercato immobiliare, su questo ha avuto meno effetti diretti, mentre gli effetti sono stati prevalentemente indiretti, connessi all’impoverimento legato alla crisi dei modelli produttivi e occupazionali, poi riverberati sul mercato immobiliare in forme molteplici . Tra questi effetti emerge proprio una nuova centralità dell’economia della rendita.
La particolare struttura proprietaria (un poco più diffusa di quella di alcune altre grandi capitali europee ma comunque concentrata, specialmente nel centro), il ruolo ‘storico’ della rendita nell’economia della città, la debolezza di alcuni settori (come l’industria) e l’indebolimento di altri in passato più solidi e dinamici (come il terziario, o il settore delle comunicazioni e della produzione culturale ), ha portato a puntare tutto sul mettere in valore i beni immobiliari (anche attraverso le STR), e questo ha interessato non solo i grandi gruppi immobiliari e di investimento attivi in città, ma anche moltissimi privati cittadini, per mantenere stili di vita che si erano ormai consolidati, per compensare i minori introiti da altre attività in crisi, o come surrogato di forme di occupazione, anche per giovani qualificati che non riescono a trovare spazi di lavoro adeguati alle loro competenze. Questa trasformazione ha avuto un impatto enorme sulla città e sul suo patrimonio. Si tratta di trasformazioni radicali, che hanno implicazioni non solo per il patrimonio materiale, ma per la struttura e l’organizzazione sociale, e per la città nella sua interezza.
Ad esempio, i negozi si sono trasformati per rispondere alle esigenze dei turisti, che sono molto diverse da quelle degli abitanti. Gli spazi pubblici sono contesi: tipicamente leggiamo di studenti fuori sede vs abitanti vs turisti: lo spazio pubblico spesso non è lo spazio dell’incontro ma dello scontro o della nascita di insofferenze e conflittualità. Recentemente, in risposta alla crisi pandemica che ha portato alla lunga chiusura della maggior parte delle attività, assistiamo all’ulteriore occupazione di suolo pubblico di tavolini di bar e ristoranti, preoccupati di garantire il ‘distanziamento sociale’ nel fornire il loro servizio ma non del fatto che questo limita in modo significativo la possibilità di usare strade e piazze fuori da logiche di consumo.
Lo scarso orientamento all’investimento di lungo periodo, la debole capacità imprenditoriale dei proprietari fondiari e immobiliari romani, la loro tendenza a ‘riprodurre il già noto’ e a ‘vivere di rendita’ è stata sottolineata da studiosi di varie discipline . Tra i vari comportamenti, questo si è tradotto nello sfruttamento dissennato del patrimonio per estrarre rendita, fondiaria e immobiliare, con il ‘corollario’ della politica di laissez-faire nei confronti dell’abusivismo, strumentale all’incremento e all’estrazione di valore, e anche forma di legittimazione sociale e politica della logica della rendita , che ha portato al sacco della Campagna Romana, alla riduzione e all’impoverimento dell’Agro che è stato, in parte è ancora, e può tornare ad essere pienamente, una delle componenti fondamentali del patrimonio della città, elemento caratterizzante della struttura urbana e del suo paesaggio .
La relazione tra patrimonio e rendita è apparentemente semplice: da un lato il patrimonio è considerato fonte di estrazione di rendita; dall’altro estrarre rendita depaupera il patrimonio, e senza patrimonio non c’è rendita. In realtà, è proprio questa semplice logica che è alla base di molti approcci orientati alla cosiddetta ‘valorizzazione’: che la interpretano come quel ‘tipo’ di incremento di valore utile per poter essere estratto, e alimentare così il mercato urbano. Si tratta di una interpretazione banale e strumentale della valorizzazione che mette in luce chiaramente il concetto di valore che vi è alla base: quello puramente economico. Molti programmi e iniziative del recente passato, quali ad esempio i programmi di riqualificazione urbana, o i più recenti progetti di ‘rigenerazione’, seppure alla ricerca di alcuni vantaggi pubblici anche attraverso la redistribuzione del surplus di valore, si traducono quasi sempre in operazioni di valorizzazione del tipo sopra descritto. È inevitabile? È davvero l’unica strada possibile?
Di nuovo, se guardiamo alle esperienze in altre città capitali europee ci rendiamo conto che altri approcci sono possibili, e uno degli elementi di differenziazione è proprio il modo di trattare la questione della rendita urbana, che si traduce nel come gestire gli incrementi di valore determinati dalle trasformazioni.
Uno studio comparativo tra progetti di trasformazione apparentemente simili (come ad es. quello per la stazione Tiburtina e quello per la nuova stazione centrale di Vienna), chiarisce la distanza – diremo, siderale – tra i due tipi di approccio e tra gli esiti prodotti.
La tassazione della rendita, il fissare oneri come forma di ‘restituzione’ di parte dell’incremento di valore incamerato dagli attori di mercato, è solo una delle strade, e a Roma si è potuto verificarne la debolezza e anche l’inefficacia sostanziale. Per ottenere maggiori e possibilmente migliori risultati, il surplus di valore dovrebbe essere direttamente incamerato dal pubblico, e questo può avvenire solo se si interviene all’inizio del processo, con una regia pubblica forte che implica non solo capacità di progettazione e gestione del processo, ma anche disponibilità di risorse. La capacità di definire politiche e di gestire processi non basta se non si hanno risorse disponibili, la loro scarsità è ciò che subordina gli obiettivi pubblici a quelli privati, e tra le risorse prima di tutto il suolo e lo spazio urbano. Lo spazio delle trasformazioni dovrebbe essere pubblico, o acquisito dal pubblico, come atto preliminare ad ogni progetto, il quale dovrebbe essere definito dal pubblico, quantomeno a livello di master plan : questo permetterebbe di quantificare gli incrementi di valore attesi, e sulla base di tale quantificazione i suoli dovrebbero essere (ri)venduti ai privati, a prezzi tali da contenere i tassi di rendimento (e quindi i profitti) ad un livello paragonabile a quello delle altre città sia in Italia che in Europa, mentre a Roma sono generalmente molto più alti . Dovrebbe essere però anche possibile fissare prezzi differenziati in base agli operatori e alle loro finalità: ancora prendendo esempio da Vienna, i suoli per l’edificazione di edilizia residenziale pubblica o sociale (con le caratteristiche sopra brevemente descritte in termini di qualità architettonica ed edilizia e anche in termini di target) sono li venduti a prezzi molto più bassi di quelli venduti agli attori di mercato per altri tipi di operazioni (es. edilizia di lusso, tipologie speciali, ecc.), considerando non solo i profitti attesi ma anche le finalità degli interventi e la natura degli operatori (privato, privato sociale, pubblico).
Le realizzazioni in altre città dimostrano che tutto questo è possibile.
Conclusioni: per una diversa idea di patrimonio
Il ribaltamento di prospettiva parte dal concetto economico di patrimonio come quel tipo di ricchezza che va mantenuta e curata per essere lasciata in eredità – in cui è limpida la consapevolezza del valore nel tempo delle decisioni e delle scelte che si prendono, che non possono essere determinate e schiacciate su un presente a-storico.
Invece di ridursi ad includere il patrimonio nei bilanci dello Stato per dimostrarne la tenuta – il passaggio che ha contribuito a diffondere un’idea di valorizzazione come incremento del valore monetario –, bisogna immaginare un nuovo e diverso strumento per gestire e monitorare il patrimonio della città e la sua utilità pubblica, in cui si tenga conto, in un arco temporale breve, medio e lungo, di quanto e cosa abbiamo ricevuto e di quanto e cosa abbiamo lasciato, chi e in quanti ne beneficiano, chi ne viene escluso – un’altra specie di bilancio della città che potrebbe servire anche alla valutazione dell’operato dell’amministrazione comunale. Si potrebbe chiamare Rendiconto per le generazioni future, oppure Rendiconto per la città che verrà – una relazione patrimoniale attraverso la quale le diverse amministrazioni esplicitano consistenza e condizioni del patrimonio pubblico: cosa hanno ereditato e cosa lasciano.
Allo stesso tempo, l’importanza del considerare il patrimonio nel tempo non può essere in contraddizione con il ‘qui e ora’: quindi, il patrimonio come progetto civile e politico deve essere pensato su tutti gli orizzonti temporali. Bisogna tornare ad investire nelle funzioni pubbliche e collettive (non solo con risorse economiche, ma anche in termini di progettualità, come forma di investimento per la città) per evitare la disgiunzione tra luoghi e funzioni, che possono contribuire all’irrimediabile scollamento tra cittadini e istituzioni, recuperando prima di tutto ciò che finora è stato meno tutelato (scuole, ospedali, forti, conventi).
La gestione del patrimonio guidata dal pubblico può significare opportunità di lavoro, di formazione, di inclusione sociale, può assicurare cura dell’ambiente e presidio territoriale.
Inoltre, per molti beni potrebbero essere ideate e rese possibili forme di gestione diverse ragionando a partire da istituti ‘minori’ rispetto alla proprietà pubblica o privata, quali gli usi civici, le servitù prediali , ripensati e attualizzati. Sono idee da sviluppare, certamente, ma di certo non da accantonare pensando che non possano portare a niente di davvero significativo in termini di capacità di trasformazione. La privatizzazione è eventualmente soluzione di ultima istanza, e in ogni caso vanno individuate – anche tra quelle esistenti – modalità efficaci per garantire i maggiori benefici pubblici, che devono essere esplicitati in qualità e quantità, e si dovrebbe anche considerare l’opportunità di una (ri)pubblicizzazione, cioè dell’acquisizione o riacquisizione pubblica di immobili, così come si sta verificando in alcune città europee , sotto la spinta di importanti movimenti.

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